USA via da Kabul: sconfitta epocale o tappa verso il futuro?
Voci dall'America

USA via da Kabul: sconfitta epocale o tappa verso il futuro?

Dopo la pubblicazione su questo blog dell'articolo "Gli Stati Uniti devono avere una politica estera ?", ho ricevuto da più parti la sollecitazione di cercare la spiegazione della crisi afgana di fine agosto entro la visione della politica estera americana nel lungo periodo. Si tratta di un'impresa titanica già per le dimensioni, anche perché l'Afghanistan è il crocevia di civiltà millenarie e di problemi geopolitici secolari irrisolti. Questo ragionamento rischia di essere troppo lungo anche solo per elencare una parte delle variabili, ma troppo breve per un livello accettabile di approfondimento. I pochi che arriveranno in fondo siano quindi indulgenti.

La questione afgana, così come quella israelo - palestinese, sembra dimostrare l'assioma che nell'era nucleare le più scottanti questioni internazionali non sono suscettibili di soluzioni definitive, ma rendono necessarie politiche progressive e prudenti, che permettono solo risultati  parziali. L'occupazione americana dell'Afghanistan era iniziata vent'anni fa (Enduring Freedom), e tre presidenti avevano promesso di uscirne (Bush jr - Obama - Trump) prima che J. Biden concretizzasse la promessa. Ammesso che rispettare la data del 31 agosto fissata dal suo predecessore sia stato un errore, l'errore non è stato fatto quest'anno, ma negli anni precedenti, quando gli Stati Uniti non sono riusciti a trasformare il loro impegno militare e finanziario in una svolta per la popolazione e le istituzioni afgane. Probabilmente molti sono stati gli errori delle amministrazioni USA, il primo e maggio è stato un errore gigantesco di prospettiva, valutazione politica e comprensione culturale degli interlocutori e della situazione locale, dovuto ad un limite insito nella politica e nella cultura americana. Nel Novecento gli Stati Uniti hanno abbandonato la politica isolazionista, affrontando numerosi conflitti militari e politici in terra straniera, mai finalizzati a conquistare nuovi territori, ma al più nuovi mercati e nuovi alleati. Oggettivamente gli USA non sono una potenza coloniale, se si intende per colonialismo il rapporto di dominio e sottomissione che uno stato impone a un determinato popolo o territorio, avendo come obbiettivo l'acquisizione di territori e risorse indigene. Il colonialismo può essere realizzato in modo palese, o attraverso politiche nazionali di assimilazione. Tutto questo non è rintracciabile nella storia americana, come riconoscono anche i più avveduti fra i sostenitori della corrente definita come "anti americanismo", perché gli elementi fondanti della cultura e della comunità americana non includono le premesse per imporre gli USA come potenza occupante. Inglesi, spagnoli, francesi belgi e cinesi, nella storia hanno avuto la capacità di fondare imperi coloniali, più o meno duraturi, ma questo eventuale merito non può essere attribuito a nessun governo americano. Quindi gli USA sono intervenuti in Afghanistan come in numerose altre crisi lontane dai loro confini per scopi immediati, e in aderenza a imperativi politici contingenti, ma senza un progetto coordinato e finalizzato con precisione.

In Afghanistan gli Stati Uniti hanno inutilmente sostenuto quelle che di fatto erano le minoranze tribali afgane rappresentate da H. Karzai e A. Ghani, versando un fiume di aiuti e finanziamenti, che ha reso gli USA stessi complici del sistema di endemica corruzione che pervade ogni amministrazione afgana. Quando il governo americano ha dovuto constatare che non c'era uno sbocco a quell'avventura, il rigido e moralista Trump ha pragmaticamente autorizzato la trattativa di Doha con i talebani, e fissato il ritiro delle truppe al più tardi al 31 agosto 2021.  La lunga teoria di errori americani si può dire sia cominciati all'indomani del 11 settembre 2001, quando la rabbiosa reazione di Bush jr si tramutò in una guerra al terrorismo condotta con metodi terroristici, ininfluenti per comunicare l'idea della supposta superiorità americana. Come ha severamente commentato Le Monde: "La potenza americana, colpita l'11 settembre 2001, ha risposto con le prigioni segrete della CIA, il rapimento di sospetti in tutto il mondo e il loro trasferimento nel campo di prigionia militare di Guantanamo, aperto appositamente per questo scopo, al di fuori dell'area del diritto penale statunitense - anche fuori dagli occhi del pubblico. Come una ferita impossibile da rimarginare, vent'anni dopo, questa prigione non è ancora chiusa. A questo dovrebbe servire anche il processo del 13 novembre 2021 a Parigi: per dimostrare che è possibile assicurare il terrorismo alla giustizia". L'ultima serie di errori, compiuta dall'amministrazione in carica, ha portato sopravvalutare ad ogni livello la capacità di resistenza dell'esercito afgano, costruito in venti anni di aiuti militari e sovvenzioni economiche, che è crollato senza neanche arrivare all'impatto finale con gli estremisti islamici.

I talebani rappresentano una minoranza della cultura islamica che si richiama alla legge coranica interpretandola in modo radicale e totalizzante, ponendola così a base di uno stato teocratico, in cui nella sostanza il potere è nelle mani del clero. Ovvero dei talebani stessi. I testi sacri dell'islam parlano una sola volta di "sharia", tuttavia secondo gli studenti delle scuole religiose afgane questa dovrebbe diventare la base di tutte le leggi dello stato, al solo fine di consegnare il potere nelle mani del ceto unico autorizzato a citare e applicare i dettami religiosi. Secondo la maggioranza dei fedeli una visione che poco ha a che vedere con la religione islamica. Come dimostra l'esempio iraniano, un intero popolo può essere in questo modo soggiogato, rendendo impossibile qualsiasi manifestazione di pensiero originale, che viene soffocato in nome dell'ortodossia religiosa, interamente controllata dal ceto dei sacerdoti che si è fatto classe politica. In occidente viviamo qualcosa di simile con il "politically correct" e il "me too", ma siamo lontanissimi dal totalitarismo che questa radicalizzazione religiosa ha assunto in una vasta area del medio oriente. Il problema è quanto è quanto è grande e quanto può ingrandirsi quest'area.

dal sito "Cooperazione internazionale" - Confederazione elvetica

L'Afghanistan confina a nord con Turkmenistan, Uzbekistan e Tagisistan, ad est e sud con il Pakistan, ad ovest con l'Iran e ad est con la Cina. Vale la pena di fare una breve ricognizione di questi stati: il Turkmenistan è la seconda potenza economica dell'Asia Centrale, con una storia di dominio arabo prima dell'imperialismo zarista nel XIX secolo, che fu il preludio all'inserimento nell'Unione Sovietica, da cui la repubblica si liberò nel 1991. La maggioranza della popolazione è "turcomanna" (80%) e musulmana-sunnita (90%). Dopo la fine della dipendenza da Mosca il Turkmenistan è divenuto una repubblica presidenziale, guidata da Saparmyrat Nyýazow, presidente a vita e Padre dei Turkmeni per 15 anni sino al 2006, che impose una dittatura basata sulla mistica nazionalista (Ruhnama - Libro d'oro), cui si sono attenuti i successori Durdy Durdyýew, Muhammetnazar Gurbanow, e dal 2007 Gurbanguly Berdimuhammedow, il cui partito domina costantemente le elezioni.
Anche l'Uzbekistan è una costola dell'Unione Sovietica, un vasto territorio riccamente popolato, ma privo di risorse naturali importanti. Il primo presidente dell'era post sovietica, Islom Karimov è stato al potere dal 1991, anno dell'indipendenza, fino al 2016. il nazionalismo ha soppiantato la mai digerita burocrazia sovietica, e il potere personale del presidente ha sfruttato le tradizioni delle grandi città uzbeche Chiva, Buchara e Samarcanda. Il successore Shavkat Mirziyoyev ha continuato nella politica del primo presidente, mantenendo equidistanza dalle grandi potenze e promuovendo la cultura nazionale cui si è ben presto affiancata l'influenza islamica, basata sull'adesione maggioritaria alla religione (85/90 %), senza che sia rilevante la divisione fra sciiti e sunniti mentre si devono registrare  episodi di terrorismo da parte di minoranze radicali.
Vicende analoghe ha conosciuto la storia recente del Tagikistan, che dopo l'implosione dell'URSS è una repubblica presidenziale, guidata dal 1991 ininterrottamente da Emomalī Rahmon, che in base alla costituzione più volte adattata, nomina il Primo ministro, e di fatto controlla in modo assoluto il potere legislativo, diviso su due camere elette ogni 5 anni. In questo piccolo e povero territorio, una minoranza islamica dissidente ha opposto una continua resistenza all'integrazione prima contro la Russia zarista, poi contro l'Unione Sovietica e infine contro la stessa repubblica indipendente. Nel presidente Rahmon si ritrovano due delle caratteristiche storiche della piccola nazione: la stabilità politica pur in assenza di una seria mobilità sociale e di partecipazione al progresso economico mondiale, e l'abilità nel sopravvivere in un territorio che sta alla confluenza degli interessi delle grandi potenze che si avvicendano e si combattono alla ricerca del predominio nell'area, come fu a lungo per Russia, Inghilterra, Cina e India. Così uno dei più longevi fra i capi di stato degli ultimi cento anni, Rahmon, è diventato una delle personalità chiave del gruppo detto OCS (Organizzazione di cooperazione di Shangai), originata dal Trattato di Shanghai del 1996 nato stabilizzare i confini delle repubbliche emergenti dell'Asia centrale. Ai cinque firmatari originali, Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Russia e Tagikistan, si sono aggiunti poi Uzbekistan e a vario titolo anche Afghanistan, Iran, Turchia, India e Pakistan, e l'organizzazione ha accentuato l'attenzione sulla sicurezza in particolare nei confronti del terrorismo islamico. Per uno stato come il Tagikistan, sostanzialmente laico, la vicinanza con un Afghanistan controllato dai talebani diviene un elemento di inquietudine, come emerso chiaramente nel recente vertice dell'organizzazione, ospitato a Douchambe proprio da Rahmon, come presidente di turno.
Come si vede già questi piccoli e apparentemente irrilevanti stati, presentano caratteristiche simili che potrebbero costruire nel lungo periodo un blocco omogeneo, ove si definisse un nuovo quadro nelle relazioni conflittuali fra le principali componenti islamiche. Ben diverso, per qualità e quantità, il peso degli altri due stati confinanti, Iran e Pakistan.
L'Iran negli ultimi cinquanta anni ha causato la caduta di un presidente (J. Carter) e costituito un problema insolubile per tutte le amministrazioni USA che si sono succedute da allora, e questo basterebbe a rendere il dossier persiano molto complesso. Si deve partire dalla lunghissima vicenda che ha portato alla formazione dell'Iran moderno, con il consolidarsi di una civiltà a sé stante, dall’età del bronzo, all’impero Achemenide di Ciro il Grande, dal lungo conflitto con le città greche, culminato nella conquista di Alessandro Magno, all’Impero Sasanide durato quasi 1000 anni, per arrivare negli ultimi tre secoli  all'impero Safavide, che impose lo Sciismo come religione di stato, sino alla dinastia dei Phalevi che ha marcato il Novecento. L'evoluzione storica ha portato alla società iraniana attuale, composita e molto diversa dalla monolitica visione dello stato islamico, che dal 1978 si è imposto dopo la caduta di Rehza Phalevi.

Da quando è divenuto una Repubblica islamica l'Iran è uno stato lacerato dalle divisioni. Fin dall'inizio il potere politico è scaturito dalle tensioni in parte palesi e in parte sotterranee, a cominciare dal vertice istituzionale, un sistema dinamico fra il presidente e il suo governo, da un lato, e dall'altro il leader religioso supremo, che controlla uno stato parallelo modellato sugli ideali islamisti. Oggi il leader supremo è Ali Khamenei, già presidente (1981 - 1989), che dopo essersi scontrato da presidente, con l'allora leader supremo Khomeini, gli è subentrato assumendone il ruolo di intransigente difensore dello stato teocratico radicale. Per contro nella carica presidenziale si sono succedute personalità politiche (A. H. Rafsanjani, M. Khatami, M. Ahmadinejad, H. Rouhani) hanno cercato di costruire una via moderata contro quella radicale degli islamici. Ma questi all'interno e verso l'estero, hanno costantemente, bollato ogni apertura come troppo laica, liberale, antirivoluzionaria e quindi sovversiva. Il potere di Khamenei si esercita attraverso il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica, e il Consiglio dei guardiani. Quest'ultimo organismo  è divenuto il vero regolatore della società iraniana, con la possibilità di giudicare e vietare ogni comportamento, pubblico e privato, e per sua natura dipende interamente dal leader supremo. Il leader sceglie il capo della magistratura, cui tocca il compito di indicare una lista di potenziali componenti del Consiglio, all'interno della quale il Parlamento (eletto) sceglie i consiglieri. Con questa struttura il leader supremo di fatto esercita un controllo assoluto sul governo e su tutta la società iraniana, che può arrivare a disattendere le indicazioni legislative e amministrative delle istituzioni elettive. Per fare un esempio concreto, l'azione governativa appoggiata dal parlamento, ha portato all'inizio del terzo millennio a riconoscere in Iran il diritto delle giovani a frequentare le università, con esclusione di quelle coraniche, e oggi le donne sono maggioritarie fra i banchi universitari. Ma la disoccupazione femminile raggiunge punte del 70%, quasi il doppio di quella maschile, perché le regole della tradizione islamica, rigidamente controllate dai Guardiani della rivoluzione, sottraggono alle donne quasi tutte le opportunità di lavoro.

Si teme che il nuovo presidente iraniano, Ebrahim Raisi, eletto nell'agosto 2021, sarà meno indipendente dei suoi predecessori. Anzitutto per la sua storia personale: dapprima pubblico ministero e giudice di tribunali minori, è stato poi proiettato da Khomeini al vertice della magistratura iraniana, distinguendosi per il suo ruolo nella repressione di ogni forma di dissenso, anche per mezzo di esecuzione di massa. Avendo sconfitto il blocco riformista, Raisi si può proporre come possibile successore dell'anziano Khamenei, e per questo non potrà rischiare di inimicarsi i Guardiani della rivoluzione.
Malgrado la struttura teocratica tendenzialmente totalitaria dello stato, appoggiato su un imponente apparato ideologico fornito dai chierici islamici, la società iraniana è estremamente viva e non è stata piegata dall'opprimente struttura statale. Pur in assenza di una vera opposizione politica interna, non si attenuano le istanze riformiste che chiedono l'apertura della nazione e della società verso il mondo esterno, con una preferenza per l'Europa, considerata da molti in Iran come culla di una cultura se non più simile quantomeno più affine a quella persiana. Italia e Francia sono i principali riferimenti per la società iraniana, e sarebbe auspicabile una politica comune delle "sorelle latine" in argomento, che faccia cadere la sterile concorrenza mercantilistica. L'opposizione all'estero è mantenuta viva con finanziamenti non trasparenti, dalla formazione politica dei Mojahedin del Popolo Iraniano (MKO), che il governo di Teheran giudica un'organizzazione terroristica, che combatte anche su suolo straniero, tanto che due diplomatici iraniani sono stati arrestati in flagranza per aver organizzato attentati contro resistenti iraniani in esilio.
Un capitolo a parte, che meriterebbe una lunga descrizione, riguarda la questione del nucleare iraniano, oggetto del controverso accordo a tre USA/Europa/Iran (Joint Comprehensive Plan of Action, JCPOA), sospeso da Trump e ancora non riavviato da Biden malgrado le annunciate intenzioni distensive. Per una estrema, ed estremamente incompleta sintesi, basti dire che l'Iran sostiene che il suo programma nucleare ha solo scopi pacifici, mentre gli Stati Uniti sulla base dei rapporti delle intelligence proprie e degli alleati, temono invece che la classe dirigente islamica voglia disporre di un livello di armamento pari a quello delle potenze della regione, India e Pakistan, e prossime al confine nazionale, Russia e Cina. Il dubbio che l'accordo sia interamente nelle mani dei Guardiani della rivoluzione per utilizzarlo a fini militari, è stato rilanciato dalle vicende della Iran Air,  ripetutamente accusata di eseguire voli militari sotto copertura civile per  rifornire di armi gli alleati dell'Iran nella regione, sotto la regia dei Guardiani. In questo quadro la mossa iraniana di dichiarare in anticipo come minime le richieste radicali di ripristino dello status quo ante, sedendosi al tavolo del negoziato in condizioni di debolezza, di fatto bloccato la ripresa del dialogo. Va anche considerato che il neo presidente Raisi ha bisogno di un successo sul nucleare, per non pregiudicare le sue possibilità di accedere alla carica di leader supremo, e quindi ci si può aspettare che l'accordo JCPOA possa essere ormai definitivamente archiviato, per arrivare ad una nuova definizione diplomatica dell'intera vicenda.

La questione chiave per ogni amministrazione americana nei confronti dell'Iran è di decidere se le violazioni del diritto iniziate nel 1979 con l'assalto all'ambasciata USA a Teheran e continuate con gli attacchi agli USA ed episodi come quelli del nucleare e di Iran Air, siano parte integrante e permanente del regime di Teheran e rendano impossibile qualunque dialogo, oppure se è ipotizzabile stabilire una relazione fra le due nazioni che non sia basata sulla reciproca ostilità. La teoria vuole che sia sempre possibile, in particolare per una nuova amministrazione USA, esplorare la possibilità di dialogo, dapprima segretamente, individuando qualche passo concreto e simbolico che consenta di aprire una fase nuova nel rapporto bilaterale (Henry Kissinger). Ma questa regola teorica ancora non ha trovato applicazione pratica nei 42 anni di relazioni fra Stati Uniti e Repubblica Islamica dell'Iran.

La strategia recente dell'Iran si condensa nella formula della "difesa avanzata", che ha portato la repubblica islamica a fronteggiare l'ostilità di D. Trump con il rinnovo degli accordi strategici bilaterali con Russia e Cina, e poi a mostrare i muscoli sul trattato nucleare. Da parte iraniana si cerca invano di convincere gli americani che dopo la dichiarazione (fathwa) di Khamenei sulla guerra, è impensabile che l'Iran usi il nucleare per fini bellici, ma permane la diffidenza americana. La crisi economica innestata dalla pandemia, che si è fatta sentire in un paese povero di strutture sanitarie come l'Iran, viene smentita dai dirigenti iraniani, che ostentano progressi nel recupero produttivo, ma è guardata con preoccupazione dalle strutture del sistema internazionale a trazione USA come la Banca Mondiale. Se la pressione sociale diventasse una vera minaccia per il potere teocratico dei chierici islamici, potrebbe esserci uno sfogo verso l'estero, ignorando le prescrizioni di Khamenei ? E' un'eventualità che l'amministrazione Biden non ha interesse di sperimentare, pertanto l'impressione è che sarà necessario un negoziato interamente nuovo, che forse è già in gestazione dietro le quinte della diplomazia ufficiale.

L'altra grande nazione per cui è necessaria una semplificazione cospicua, tanto complesso è l'argomento, è il Pakistan. Sarebbe necessario uno studio a parte solo per gli avvenimenti del periodo 1948 - 1971,  che hanno definito il grande stato islamico sunnita, circondato da nemici grandi e piccoli, erede di conflitti esterni ed interni sanguinosi, che ancora oggi determinano azioni politiche e militari spesso incoerenti o addirittura confliggenti fra di loro. Il Pakistan moderno si definisce prioritariamente come stato islamico contrapposto alla grande democrazia Indiana, e come aspirante leader, grazie alle sue dimensioni, degli stati islamici della regione. E' opinione comune e probabilmente veritiera, che i talebani non sarebbero tornati vincitori a Kabul senza l'aiuto pakistano. Più difficile è capire chi abbia dato questo aiuto e chi abbia invece remato contro, dentro il governo e l'esercito pakistano. Da sempre interessati ad avere un buon vicino dall'altra parte della linea Durand (un altra delle eredità avvelenate del colonialismo britannico insieme agli accordi Sykes-Picot), dopo il ritiro sovietico dall'Afghanistan, i governi di Islamabad nel rapporto con i talebani hanno alternato tre fasi ben distinte, cadenzate dall'alternanza al potere di Benazir Bhutto, del suo ex marito Asif Ali Zardari, di Pervez Musharraf e infine di Nawaz Sharif. Dapprima le buone relazioni con il partito degli studenti islamici sembrò la migliore politica per garantire al Pakistan autorità nella regione e contenere le ambizioni dei rivali storici, Iran (islamico ma sciita) e India. Poi, a seguito dell'attacco terrorista del 11/9/2001, la reazione americana convinse l'uomo forte del momento, Musharaff, a sostenere il fronte occidentale, senza però far cessare del tutto i rapporti con i talebani, anche per il sorgere di un movimento para talebano all'interno del Pakistan (TTP), che ha accentuato le divisioni in particolare nell'esercito pakistano. Infine, durante l'occupazione americana dell'Afghanistan, il Pakistan ha progressivamente ripreso il ruolo di sostenitore dei talebani, pur senza essere determinante, come si diceva,  nella caduta del regime filo americano. In questo periodo l'atteggiamento del governo e dell'esercito pakistano è stato sempre ambiguo e ambivalente, come evidenziato in modo chiaro e drammatico dall'episodio dell'uccisione di Osama Bin Laden, avvenuta con la collaborazione dell'esercito di Islamabad,  in territorio pakistano, dove il più famigerato terrorista della storia godeva dell'appoggio di una parte delle istituzioni locali. Il rapporto degli USA con il Pakistan, inoltre, è necessariamente condizionato da due fattori: le dimensioni, visto che si tratta di una nazione di quasi 250 milioni di abitanti, e l'appartenenza di Islamabad al club dei detentori dell'arma nucleare. Con questi due paletti importanti, nessuna amministrazione americana si è mai potuta permettere un eccesso di rigidità nelle relazioni bilaterali con i vari governi pakistani Per questo Washington è costretta ad una partnership che non può diventare alleanza con Islamabad e  con i meno frequentabili dei suoi capi militari, pur sapendo che un tale rapporto non può che portare risultati tattici e parziali, e mai un risultato strategico definitivo.

Infine il minuscolo confine con la Cina (meno di 80 chilometri), all'altezza della problematica la provincia occidentale del Sinkiang, che implica direttamente il grande concorrente degli Stati Uniti nella complessa vicenda afgana. Mentre i punti di frizione fra le due super potenze sono sembrati prevalentemente marittimi, questa nuova occasione di confronto indiretto non facilita né i rapporti fra Pechino e Washington né la soluzione delle crisi dell'area afgana.  

In questo complesso quadro, il rischio che il ripristinato regime talebano di Kabul si faccia promotore di una nuova stagione di terrorismo islamico appare secondaria, ed è tutto dire, rispetto al rischio geopolitico che si costituisca dal Mar Caspio all'Oceano Indiano un complesso di stati aventi per denominatore comune la matrice islamica, con la Turchia a fare da cerniera più che da cuscinetto nei confronti dell'Europa. Un esito che la ventennale presenza americana in Afghanistan non è riuscito a scongiurare, principalmente per l'incompatibilità culturale fra l'occupante e gli occupati, che hanno dilapidato gli enormi finanziamenti ricevuti senza riuscire a incidere sulla società afgana. Pur nella divisione principale fra sunniti e sciiti (80% vs 15 % del totale di musulmani - dati 2017) non è impossibile che un tale blocco, posto al confine fra Cina e Russia, e diviso dall'occidente da un breve braccio di mare, possa esercitare una imprevedibile influenza economica e militare, se non addirittura proporsi come polo di aggregazione politica oltre a Stati uniti, Europa e Cina. Uno scenario che rischia di rinviare ulteriormente il raggiungimento di un'apprezzabile stabilità per il mondo post globalizzato.

Il ritiro degli Stati Uniti dall'Afghanistan, ultimo di una serie di episodi iniziati con la caduta di Saigon nel 1975, dimostra che nel sistema politico internazionale attuale l'egemonia accompagnata dalla forza militare non è sufficiente per incidere sulle situazioni locali, e che nessuna potenza intesa in senso classico, per quanto planetaria, è in condizione di gestire le crisi locali all'interno di un sistema di sicurezza internazionale. Tanto più urgente si rivela quindi l'avvento di una politica congiunta fra Europa e Stati Uniti che abbia il punto di partenza nella realizzazione dell'autonomia strategica europea, favorita e non sopportata da Washington.

https://www.foreignaffairs.com/articles/united-states/2021-09-03/afghanistans-corruption-was-made-in-america

https://www.foreignaffairs.com/articles/afghanistan/2021-09-09/americas-perennial-pakistan-problem

https://www.lemonde.fr/international/article/2021/09/18/le-tadjikistan-une-republique-de-radicale-hostilite-aux-talibans_6095134_3210.html

https://www.agi.it/estero/sunniti_sciiti_differenza_spiegata_dove_sono-1858057/news/2017-06-08/

(https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/09/18/distinguer-la-charia-de-ses-interpretations-sectaires-est-plus-que-jamais-necessaire_6095112_3232.html)

https://www.nytimes.com/2021/09/18/world/middleeast/iran-nuclear-fakhrizadeh-assassination-israel.html

https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/09/06/attentats-du-13-novembre-le-droit-ultime-reponse-au-terrorisme_6093578_3232.html

https://www.nytimes.com/2021/09/18/world/middleeast/iran-nuclear-fakhrizadeh-assassination-israel.html

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