Michele Fusco (1954-2021)
Diario

Michele Fusco (1954-2021)

Nel cercare di mettere nero su bianco il "mio" Michele, dopo i giorni del puro dolore, e dopo che decine di professionisti della stampa lo hanno ricordato con parole adeguate, devo prima di tutto costringermi al rispetto di alcuni limiti, fissati da criteri né astratti né puramente personali. Non si tratta solo di evitare la retorica e la commozione, ma di fare il possibile per cogliere un barlume di verità sul mio amico Michele. Una verità che solo Genni e Giovanni conoscono interamente.

La prima regola da usare a questo fine, è stata fissata dal maestro Gioan Brera: non gli farò il torto di parlarne come se fosse morto. La seconda viene da una straordinaria biografa francese, Pauline Deyfus, che scrive a proposito di un suo soggetto "bisogna diffidare delle spiegazioni date a posteriori, perché ridisegnano la linea dei ricordi cancellando le ombre".

I ricordi sono tanti, e a prima vista privi di ombre, anzi c'è sempre tanta luce, che riguardino gli scalmanati che eravamo quando in mutande rincorrevamo un pallone sui campi da calcio, qualche anno fa, o le più comode e assennate conversazioni, seduti al fresco di un caffè in Prati come successo, troppo di rado, in tempi più recenti.

Ne scelgo dal mazzo tre, che da soli dicono perché siamo diventati fratelli: Liceo Omero, Bruzzano, la nostra classe di lazzaroni in cerca del diploma di maturità affronta lo scritto di greco, e se non fosse per Michele e Pia che mi dettano la traduzione, metà per ciascuno, sarei ancora su quel banco. Quando però si tratta di proseguire negli studi, Michele mi dà retta, e così sbagliamo insieme nell'imboccare la strada dell'università. Ci divertiremo sempre, ma finendo nel fosso alla prima curva, alla Cattolica. Lui aveva già la fissa del giornalismo, e proseguì con noncuranza su quella strada, considerando l'incidente irrilevante, e non venne meno la consuetudine quotidiana, all'epoca fatta di appuntamenti fissi, senza sms e whatsapp. Il suo giornalismo fu dapprima sportivo, e qui si innesta il secondo ricordo: luglio 1982, Michele fra ufficio stampa ENI e primi passi nelle redazioni, io ho trovato un lavoro gratificante. Viviamo una dopo l'altra le nostre notti magiche, prima davanti al televisore e poi, molto più tardi nella notte, alla ribalta del Corriere in via Moscova, per prendere a ufo il giornale fresco di stampa. Già dopo la partita con l'Argentina Michele mi sollecita "dai, andiamo in Spagna"; io gli tarpo le ali, perché malgrado il lavoro sono sempre in bolletta, e in quel periodo sto rincorrendo una ragazza difficile, che una volta raggiunta rimarrà per sempre difficilissima. Il caso vorrà, o sarà stato il destino, che le nostre mogli abbiano lo stesso nome. Michele finisce per rinunciare al progetto e insieme ci riduciamo a vedere la finale nel soggiorno di casa Fusco, togliendo i lenzuoli dai divani, perché Tonino e Sandra sono al mare a Rapallo. Con noi, anche mio padre, Vito e Pasqualino; due generazioni di barisiens. Per avergli impedito di essere a Madrid mi ha insultato quella sera, e poi ogni volta che ci siamo visti nei successivi quarant'anni. Tranne poi consolarmi, dicendo che quelle notti milanesi restavano per lui uniche e irripetibili. Terzo ricordo, ho cancellato dalla memoria la data esatta, ma siamo in piena epoca berlusconiana. Michele si cimenta finalmente con la cronaca politica, e quando commentiamo la corte di nani e ballerine del neo sovrano,  davanti a un piatto notturno di spaghetti sprint da Alfredo in via Marghera, gli dico che l'avvocato genovese Alfredo Biondi, è un vecchio massone, e lui mi dà credito. E l'indomani lo scrive. Solo un complesso intervento trasversale di Tonino riesce a salvare Michele da una querela, e me da un complesso di colpa a vita. Anche di questo riparleremo spesso, e scoprirò che lui considerava il mio non un consiglio fraudolento, ma una specie di benedizione, perché aveva imparato, a prezzo di uno spavento, che qualsiasi fonte deve essere controllata e validata.

Tre fesserie certo, ma che a me hanno detto allora, e mi ripetono oggi, due cose di Michele, senza "ridisegnare la linea del ricordo": la sua voglia inesauribile e cristallina di vivere una professione controversa come quella del giornalista, e la generosità con gli amici. Solo con gli amici attenzione, chi era estraneo al suo modo d'essere non poteva aspettarsi sconti. Ma per gli amici era pronto non solo a dare, e non solo a perdonare, ma all'atto estremo della fidelitas: accettare l'altro senza condizioni. E poi quella generosità si traduceva in condivisione in parti uguali dei suoi sogni, e delle altrui preoccupazioni, senza mai fare col bilancino il conto del dato e dell'avuto. Figli di due diplomati ragionieri del Giulio Cesare, far di conto non era il nostro forte, e forse anche in questo ci siamo riconosciuti.

Nel modo assoluto con cui Michele si è sempre messo a disposizione, rientra anche la sua vocazione a rifiutare i compromessi e i baratti di cui è costellata la vita di ciascuno di noi.  Certo, in misura diversa da persona a persona: una misura ridotta per chi ha la schiena dritta, più consistente per chi è in qualche modo propenso a piegarsi. L'eterna contraddizione fra venalità e piacere di scrivere, Michele la risolse senza porsi dubbi, sino dai tempi delle prime righe battute anonimamente per il Corriere dello Sport. Era nella redazione milanese di via Carducci, prima che Lionello Bianchi se lo portasse dietro al Giorno, alla corte di Pilade Del Buono, capo redattore dello sport. Da allora Michele ha ripartito il suo lavoro fra due attività cui ha attribuito per tutta la vita pari dignità e importanza: la lettura dei giornali e la scrittura sui giornali. La seconda in Michele non aveva senso senza la prima, che senza essere la kantiana preghiera del mattino, è stato per lui un sottile piacere obbligato, necessario per trovare il tono del suo racconto. E più di tutto la chiave per identificare non la verità, chimera che ci tiene sempre a distanza, ma almeno le falsità e gli errori. Per quanto ne posso sapere Michele non ha mai fatto scelte basate sulla convenienza economica, ma solo sul suo personalissimo modo di vedere le cose. Diceva, all'inizio della sua storia professionale, che non gli interessava scrivere per il quattrino. Nessun moralistico complesso di superiorità, ma solo la scelta netta di una divisa, da tenere addosso per sempre. Nessun eroismo, sia chiaro, stiamo parlando solo di un uomo di carne, un professionista, che scrivendo si è guadagnato da vivere, facendo qualche inevitabile "marchetta". Ma restando misurato nel pensare come lo era nell'uso, accurato e puntiglioso, delle parole.

Un uomo con difetti e dubbi, e non certo un santo o un'anima bella lontana dalla realtà del mondo. Negli anni mi è sembrato sempre più conscio della realtà economica, che all'inizio della nostra vita capivamo poco e male, malgrado le lezioni ricevute in famiglia e all'università da un maestro come Carlo Dell'Aringa. Michele ha capito in fretta che, essendo inevitabile pagare tanti pedaggi, è perfettamente inutile andarne a cercarne anche altri, finendo condizionati o peggio. Michele ha tenuto quella divisa per tutta la vita, senza mettere a disposizione la sua penna non dico per soldi, ma solo per compiacere qualcuno, fosse anche un amico. Né ha mai cercato di approfittare di un'amicizia per un tornaconto professionale, che si trattasse di un'agognata notizia o di una migliore tribuna per le sue opinioni. Con disincanto e senza cinismo ha capito quanto sia praticato lo scambio inconfessabile e il conflitto d'interessi, ovunque, ma in particolare nelle redazioni. Per la mentalità di Michele ci sono prezzi da pagare e cose che non si comprano con il denaro; come ha scritto chiudendo un articolo difficile da dimenticare, quando ha lasciato l'Inkiesta: "pagare per quello, oggi ci inorgoglisce" Negli ultimi anni, quando gli raccontavo che ai periodi magri nel mio lavoro era subentrata una relativa sicurezza, mi ha costantemente preso in giro, rimproverandomi per essermi fatto sedurre dal conto in banca finalmente lontano dal rosso. Ma mentre mi stuzzicava senza giudicarmi, istantaneamente mi perdonava, con un atteggiamento che trovavo paterno, per quanto lui potesse essere tale verso un fratello minore di soli otto mesi.

Dicevo della divisa del giornalista libero, ma parlando di Michele è inevitabile citare anche l'altra sua divisa mai smessa, quella a strisce rossonere del Milan. Per quei colori ha vissuto anni belli e difficili, prima nelle giovanili da giocatore, poi da tifoso e infine da addetto stampa della società all'epoca del passaggio da Farina a Berlusconi.  In quel frangente ebbe uno scontro col Cavaliere, senza piegarsi di fronte all'uomo che si avviava a diventare il più potente d'Italia. L'amore per la squadra fu cementato dall'ammirazione per alcune leggende milaniste, primi fra tutti Liedholm e Rivera. Michele, già adepto della chiesa rossonera, fu conquistato dallo stile e dall'ironia del compassato svedese, che per motivi anagrafici non aveva potuto mai vedere in campo. Al contrario esclusivamente fatta di estetica calcistica fu la sua venerazione per Rivera, di cui arrivava a imitare involontariamente le movenze quando si cimentava insieme a noi sui campi della periferia milanese. Ma pur deluso tanto dallo stile di gestione del Cavaliere, quanto dalla vita adulta democristiana del suo eroe, non ha mai smesso di indossare la maglia rossonera sotto le sue giacche eleganti, e sempre più sgargianti.

La coerenza è una moneta assai svalutata, tranne che in un ristretto circolo di amatori, da cui Michele non si è mai staccato. E come solo può accadere fra milanisti e interisti, ci siamo presi in giro per tutta la vita, senza mai litigare per i fatti calcistici, che anzi riuscivamo a guardare con il giusto distacco, proprio per il rispetto verso i dolori della nostra contrastante militanza.

Negli ultimi anni mi è capitato di mandargli dei messaggi contestando garbatamente alcuni articoli, e una certa sua ostinazione nel prendere posizioni solitarie e originalissime, dopo avere scartato tutte le strade ortodosse, che pure dissezionava nei suoi articoli. Ho cominciato chiamarlo il Gran Bastian Contrario. Mi stringe il cuore e ricomincio a sragionare, pensando che una delle ultime mie punzecchiature è stata sulla distinzione da lui fatta fra vecchi e anziani ai tempi del Covid, in un suo articolo in piena prima ondata pandemica. Proprio questa brutta bestia che gli ha tolto qualche anno di vita strappata al destino. Una bestia che aveva guardato a lungo in faccia, scrivendone con un'intensità che retrospettivamente appare drammatica e premonitrice.

Michele è questo: pur di dire quello che pensa non esita a sfidare anche il morbo del secolo, che adesso si illude di averlo battuto. Ma non è così. In quest'epoca in cui i vincenti hanno l'incondizionato e quasi unanime plauso della platea, la storia di Michele, le sue realizzazioni a cominciare dalla famiglia, lo mettono al riparo da qualsiasi discussione su vittoria e sconfitta. Di fronte alla bestia, come in tutta la sua vita, Michele non ha perso. Adesso è andato a centrocampo e sta salutando il pubblico. Facendo certamente un commento al vetriolo sottovoce.

Addio fratello. Ti sia lieve la terra.

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Di Gianfranco Pascazio
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