Aspro dibattito negli USA sulla politica internazionale

Si intensifica negli  Stati Uniti il dibattito sulla strategia di politica di internazionale. Mentre il Presidente Biden dimostra, con il sostegno attivo all'Ucraina attaccata, di considerare l'Europa un teatro semi domestico, molte sono le spinte per un maggiore impegno in Asia, con l'obbiettivo di bilanciare la crescita della Cina, da molti percepita come l'unico concorrente globale per la leadership americana nel futuro.

Dopo la fine della guerra fredda ed il ridimensionamento dell'ex Unione Sovietica, il mondo ha vissuto un breve periodo unipolare, nel quale gli Stati Uniti hanno dovuto affrontare successivamente lo sfidante asiatico, le crisi locali in Europa e altrove, e una fronda interna alimentata dai mai sopiti sentimenti isolazionisti. Gli alleati europei sembrano avere accettato una redistribuzione dei ruoli: gli USA assicurano l'ombrello nucleare, il sostegno tecnologico degli armamenti e il supporto politico - militare in occasione di crisi come quella Ucraina. Gli Europei in cambio della fedeltà politica all'alleato e di un costante incremento della spesa militare, ricevono tutte le garanzie strategiche, senza però pervenire ad una visione comune su forme, metodi e quantità della loro autonomia strategica. L'economia segue di conseguenza.

Passata (momentaneamente?) la parentesi trumpiana, la maggioranza bipartisan negli USA sembra essere oggi tornata a favore di un impegno internazionale, sia pure con un ampio ventaglio di opinini politiche e accademiche. L'amministrazione Biden per bocca del consigliere per la Sicurezza Nazionale del Presidente, Jake Sullivan, ha definito il 27 aprile scorso (discorso al Brookings Institute) una bozza di dottrina strategica. Sullivan ha premesso che il Presidente Biden ha dovuto affrontare quattro situazioni critiche: il depauperamento della base industriale americana; un nuovo scenario economico caratterizzato dall'ascesa della Cina, potenza autoritaria svincolata dalle logiche di mercato; la crisi climatica e infine la crisi della democrazia rappresentativa aggravata da un aumento formidabile delle disuguaglianze. Affrontare queste aree di crisi per Biden ha significato anche cercare di governare l'intreccio fra economia, sicurezza nazionale e democrazia, che caratterizza la nostra epoca. Le azioni della presidenza Biden, orientate al lungo periodo, sono: 1) mettere le basi per una nuova politica industriale orientata ad una collaborazione fra pubblico e privato; 2) rinnovare le alleanze per definire obbiettivi e percorsi comuni; 3) negoziare nuovi accordi economici internazionali innovativi adeguati alla mutata realtà globale; 4) concentrare l'attività del governo USA sulla protezione del vantaggio competitivo tecnologico americano. Sintetizzando, Biden sta cercando di operare nel solco di F. D. Roosevelt, rilanciando l'alleanza della classe media media americana con la grande industria, per redistribuire la ricchezza all'interno e nel contempo permettere agli USA di rifrmare senza traumi il nuovo ordine internazionale che assicuri il progresso della nazione americana in un mondo meno ostile.

A livello accademico le diverse visioni contrapposte sulla linea di politica estera sono state cristallizzate in un dibattito aperto sulla eventualità che gli Stati Uniti si concentrino sulla sfida con la Cina, allentando il legame con l'Europa. Ha aperto la discussione Michael J. Mazarr, Senior Political Scientist della RAND Corporation ("Why America Still Needs Europe" - 17 Aprile 2023). Per Mazarr l'interesse degli Stati Uniti rende impossibile l'allentamento dei legami con l'Europa. Gli argomenti portati da Mazarr a sostegno di questa tesi sono numerosi:

  • l'Europa è parte della sicurezza nazionale USA, come evidenziato dalle conseguenze di un disimpegno degli Stati Uniti dalla NATO in caso di attacco ad un membro dell'alleanza, ad esempio nel baltico;
  • la crescente partnership tra Russia e Cina significa che l'Europa e l'Indo-Pacifico sono ormai indissolubilmente legati;
  • pensando alle rivendicazioni di Pechino sulla sovranità di Taiwan, il disimpegno degli Stati Uniti dall'Europa potrebbe facilitare un confronto armato nel Pacifico piuttosto che scoraggiarlo;
  • La cooperazione con gli alleati europei migliora le capacità militare degli Stati Uniti anche al di fuori dell'Europa (es. in aree che includono operazioni coordinate di difesa contro i missili balistici);
  • La partecipazione degli Stati Uniti alle esercitazioni della NATO migliora le capacità delle forze statunitensi;
  • un attacco nel Pacifico agli Stati Uniti o ai suoi alleati potrebbe non lasciare ai leader europei altra scelta se non quella di aiutare l'alleato, benché sino ad oggi i governi europei si siano dimostrati ansiosi di evitare un conflitto USA-Cina (da ultimo E. Macron a Pechino. aprile 2023).
  • il coordinamento con l'Europa è fondamentale per gli sforzi degli Stati Uniti per opporsi alla campagna della Cina per sovvertire le norme, le regole e le istituzioni del sistema internazionale.

In definitiva, per Mazarr, c'è una continuità storica: sin dalla seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno sostenuto il proprio ruolo internazionale di promotori di un ordine condiviso nell'interesse comune di tutti gli stati. Dopo due decenni di disordine mondiale - dall'Iraq alla crisi finanziaria, da "America first", all'Afghanistan - il coordinamento delle risposte all'aggressione russa in Ucraina ha finito per consolidare una leadership americana, meno assertiva e più orientata alla collaborazione con gli alleati.

Alla posizione tutto sommato tradizionalista di Mazarr, si sono opposti Emma Ashford (Georgetown University), Joshua R. Itzkowitz Shifrinson (Cato Institute) e Stephen Wertheim (Yale Law School), che in "Europe Must Step Up" (26 Maggio), hanno sostenuto la preferenza per il disimpegno americano dall'Europa a favore di una concentrazione sulla sfida cinese nell'area dell'indo-pacifico. Secondo gli autori non esiste o è limitato il pericolo di una crisi atlantica in caso di accentuazione dell'interesse asiatico degli USA. L'apporto dell'Europa alla conduzione complessiva della competizione con la Cina sarebbe limitato, sia in termini di riduzione delle spese militari USA, che di efficacia operativa degli europei nel teatro asiatico. Inoltre secondo gli autori, la riduzione della presenza USA in Europa non produrrebbe nessuna crisi con gli alleati, anche per la lunga storia di legami bilaterali, che prescindono da UE e NATO. E infine, argomento più solido, la storia del rapporto Euroamericano dimostrerebbe che anche quando l'impegno degli Stati Uniti per la sicurezza europea é stato seriamente messo in discussione (Bush jr - Trump),  i volumi di commercio e investimenti transatlantici non sono stati intaccati dal neo isolazionismo a Washington. Né in passato le nazioni europee hanno azzerato il commercio con paesi ostili agli USA, come è avvenuto per tutta la Guerra Fredda. L'ormai consolidata integrazione delle economie europea e statunitense, secondo i tre studiosi, sarebbe oggi consolidata da problemi e obiettivi comuni, come il raggiungimento di una transizione coordinata verso l'energia verde o il controllo dell'evoluzione dell'economia digitale. La conclusione é che la presenza militare in Europa degli Stati Uniti non è una variabile che possa distrarre Washington dal concentrare la sua attenzione strategica sull'area del Pacifico, e dal confronto diretto con la Cina.

Nella risposta di Mazarr (26 maggio), non senza qualche punta polemica, si sostiene che il vero obiettivo dei tre studiosi non é tanto la posizione europea degli Stati Uniti, ma la possibilità stessa per gli USA di condurre una strategia di grande respiro. La funzione di protettore dell'Europa difesa da Mazarr diventerebbe nella visione dei suoi tre antagonisti, solo l'arrogante pretesa di modellare il mondo secondo i desideri americani. Lo studioso della RAND ritiene opportuno evidenziare che l'Europa sta affrontando la più grave crisi di sicurezza dalla fine della Guerra Fredda, e lo sta facendo con una rinnovata intesa con gli Stati Uniti. Pertanto a suo modo di vedere, la rinuncia americana agli oneri della sicurezza europea sarebbe "uno degli atti più confusi e controproducenti fatti da una grande potenza nella storia moderna".

Chiunque siederà alla Casa Bianca nel prossimo quinquennio, e qualunque dottrina verrà adottata, è certo che la transizione verso un nuovo ordine internazionale non sarà facile, e passerà oltre che dalla nuova intesa USA/UE, anche da una maggiore autonomia strategica europea. "Costruire una difesa europea funzionante richiederà abili manovre politiche, il mantenimento della base industriale della difesa europea e un cambiamento globale nella cultura strategica" (Mazarr). Ma grazie ad una maggiore autonomia dagli USA, l'alleanza sarebbe più solida, sostenibile e coerente con la storia dal dopoguerra ad oggi, dando così anche conferma che gli Stati Uniti non sono una potenza in perdita di forza egemonica, bensì un leader pronto a collaborare con alleati nella definizione di un ordine mondiale sicuro e stabile.

Non si deve peraltro dimenticare che le rivendicazioni territoriali di Russia e Cina, nazioni rette da solidi sistemi autoritari mentre le democrazie di stampo occidentale sono in crisi, potrebbero diventare un detonatore per un conflitto che sarebbe difficile circoscrivere all'ambito locale.

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https://www.whitehouse.gov/briefing-room/speeches-remarks/2023/04/27/remarks-by-national-security-advisor-jake-sullivan-on-renewing-american-economic-leadership-at-the-brookings-institution/

https://www.brookings.edu/events/the-biden-administrations-international-economic-agenda-a-conversation-with-national-security-advisor-jake-sullivan/

https://www.foreignaffairs.com/united-states/why-america-still-needs-europe

https://www.foreignaffairs.com/responses/does-america-still-need-europe?