Ancora sui dazi, un giudizio definitivo datato 1936
Secondo un antico detto latino "Nihil dictum est, quod non dictum fuerit prius", e una conferma significativa ci è offerta dal dibattito in corso sul neo protezionismo del Presidente Trump. I difensori, spesso non richiesti, della politica di dazi, oltre a cercare di trovare improbabili dati a sostegno dell'utilità dei dazi, cercano il conforto dei testi sacri dell'economia USA, come "The Great Contraction 1929-1933" di Milton Friedman e Anna Jacobson Schwartz, pubblicato nel 1963, originariamente un capitolo del più importante libro della coppia di economisti (A Monetary History of the United States, 1867–1960), poi pubblicato come testo autonomo. In linea con le teorie di Friedman su politica monetaria e necessità del controllo governativo rigido dell'offerta monetaria, Milton e Schwartz in quel libro attribuiscono alla FED colpe gravissime per non avere capito nè affrontato la crisi attraverso la leva monetaria, mentre al contrario i due monetaristi minimizzano l'influenza della politica protezionistica dell'amministrazione Hoover sull'esplosione della grande depressione del '29.
Il fronte opposto è in queste settimane composito e agguerrito, ma una risposta definitiva era forse già stata data nel libro "Il protezionismo e la crisi" di Edoardo e Luciano Giretti, pubblicato da Einaudi nel 1935, e conservato nella mia biblioteca paterna. Edorardo Giretti é stato un economista della scuola di Torino che per tutta la vita accademica e politica aveva avversato il protezionismo. Il nipote Luciano, diplomatico con una formazione da economista, entrò a Palazzo Chigi, allora sede del Ministero degli Affari Esteri, nel 1936, ottenendo poi incarichi a Lipsia e Berlino fra il 1941 e il 1944, riuscendo ad evitare l'epurazione che colpì altri colleghi di quelle sedi come l'indimenticato Giangaleazzo Bettoni, e fu assegnato negli anni cinquanta e sessanta a sedi multilaterali come le Nazioni Unite a New York, la C.E.C.A., l’O.C.S.E a Parigi, terminando la carriera come Direttore dell’Istituto Diplomatico.
Nel testo pubblicato in pieno ventennio fascista, si respira la poca aria liberale che ci si poteva permettere a Torino fra la casa di Luigi Einaudi e la neonata casa editrice del figlio Giulio, ancora domiciliata in via Arivescovado. Frasi come "il mito dell'autarchia nazionale è impossibile senza tornare alla barbarie primitiva" hanno certamente contribuito alle numerose incursioni dell'OVRA negli uffici Einaudi. Che resistette grazie agli interventi del babbo, ma anche per il rigore scientifico della produzione editoriale, che in questo caso si riverbera nella completezza con cui sono presentati tutti gli elementi che avevano fatto dell'ondata protezionista del primo Novecento una delle cause della Prima Guerra Mondiale, e che secondo gli autori avrebbero per sempre fatto del protezionismo una sciagura per un'economia di mercato nell'Occidente capitalista.
La prima parte del libro è dedicata a "La guerra e le cause della reazione protezionistica": partendo dalla descrizione del protezionismo agrario e manifatturiero di fine Ottocento, si descrive il risorgere del mito nazionalista, accompagnato dagli interessi convergenti di burocrazia, casta militare e gruppi finanziari e industriali. Nell'Europa degli anni Venti anche per gli errori economici e politici dei Trattati di Pace, ebbero successo programmi protezionistici nati all'interno delle economie di guerra e resi permanenti forzando le normali leggi economiche. Il nuovo sistema doganale, riflesso in Italia nella legge doganale del 1921, ebbe come primo effetto l'inflazione monetaria, e la nascita di un sistema di scambi bilanciati sotto il controllo governativo. Tutto il mondo dovette adeguarsi alla tendenza del momento, persino l'allora leader mondiale, l'Impero Britannico, che nella mperial Economic Conference di Ottawa del 1932 abbandonò il libero scambio nell'area del Commonwealth.
Nella seconda parte gli autori si soffermano sulle "illusioni del protezionismo" nella teoria generale dell'economia capitalista occidentale, osservando come il protezionismo sia una tendenza costante in momenti di stagnazione economica, che si porta dietro dazi, controllo dei cambi e quote ristrette per gli scambi in valuta. Il problema, secondo i Giretti, è che il libero scambio e la facilitazione del commercio internazionale, che caratterizzano i cicli positivi dell'economia, vengono impediti dalle politiche protezioniste, divenendo fattori di squilibrio in quanto causano contrazione della produzione e dei livelli di occupazione. Secondo la tesi degli autori, l'autarchia nazionalista corrisponde ad un impossibile ritorno ad un passato economico cancellato, ed è particolarmente dannosa per paesi che dispongano di limitate risorse naturali o di scarse competenze tecnologiche e scientifiche. Qualcuno dovrebbe consigliare ai corifei della politica trumpiana di oggi la lettura del capitolo sulla "superstizione della bilancia commerciale" e sulla inutilità del bilateralismo commerciale, che oggi appare il credo invincibile dell'ex immobiliarista fattosi re.
Tocca a chi di economia sia veramente esperto giudicare la perennità di queste idee, che al profano sembra ben argomentata da Edoardo e Luciano Giretti. Che non a caso avvertono, all'inizio del capitolo sesto, che il protezionismo prospera in particolare quando c'è l'illusione di una ricchezza infinita slegata dal concetto basilare di produzione e marginalità. Per i Giretti, la fine delle illusioni porta inevitabilmente alla rovina di quanti "credevano di essersi arricchiti misurando i loro averi con un metro monetario accorciato". E altrettanto inevitabilmente il diffondersi del protezionimo conduce a scenari di guerra per la dinamica perversa del binomio nazionalismo-protezionismo. Speriamo che l'Occidente riesca a sfuggire a questa spirale.
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